Il cardinale José Tolentino de Mendonça
Il filosofo di stirpe rabbinica Martin Buber, che come pochi ha saputo pensare l’enigma e il significato della nostra umanità, così scrisse: «Il mondo non è comprensibile, ma è abbracciabile». Con questa frase non si riferiva soltanto al mondo che è fuori di noi, ma anche al mondo specificamente umano, all’universo interno, a quella porzione di esperienza e di mistero che nel tempo emerge, con ogni persona, in modo unico. E allo stesso modo pensò le relazioni e gli affetti che siamo capaci di intessere. A cominciare dall’amicizia. I limiti della comprensione hanno a che vedere con il fatto che l’altro rimane altro e, anche quando ci è più che mai prossimo, non cessa mai di essere irriducibile a noi. Nell’amicizia questo non è un problema, anzi è un arricchimento. Insegnava Buber: «Il mondo non è comprensibile». Viene sempre un momento in cui dobbiamo dirci: “la cosa più importante non è capire”, “la cosa più importante è abbracciare”, e abbracciare anche ciò che non comprendiamo. Perché la grandezza dell’abbraccio sta nel suo arrivare, spesso, dove la comprensione non arriva. E questo perché l’abbraccio, fermandosi al di qua della pelle, accetta la separazione ontologica che è significata dalla pelle dell’altro. Il capire postula un’interpretazione esaustiva, sogna una mappa stabile, alimenta la volontà di decriptare il segreto. L’abbraccio riconosce che esiste una pelle, da una parte e dall’altra, e che anche nell’intimità questa pellicola si mantiene. Già Aristotele spiegava, per esempio, che quando noi tocchiamo non annulliamo quella sorta di intervallo che persiste tra noi e la realtà, un distanziamento minimo mai sospeso, che ci mette in guardia dal mito della coincidenza totale e dall’illusione della fusione assoluta. Farci vicini agli altri non è consumarli, quasi potessimo ridurli a oggetto. Anche quando ci stringono al petto dei nostri amici, gli abbracci dell’amicizia ci fanno sempre respirare ampiezza e vastità. È vero che nell’abbraccio tocchiamo dimensioni importanti dell’essere.
Per la prima mostra surrealista che fu inaugurata in Europa dopo la Seconda guerra mondiale, la copertina del catalogo fu affidata a Marcel Duchamp. Questi creò un’immagine con una didascalia provocatrice: «Prière de toucher». Normalmente le opere d’arte sono accompagnate dall’avviso di non toccare. Qui, al contrario, si dice per favore toccate. In quel 1947, quando ci si dibatteva ancora tra le ceneri del grande conflitto, occorreva un messaggio riparatore, capace di far dimenticare la segregazione, il filo spinato. Ma è un messaggio necessario sempre. Tutto sta a vedere in qual modo noi tocchiamo. Nella copia delle Elegie duinesi che regalò alla poeta russa Marina Cvetaeva, Rainer Maria Rilke domandava: «Noi ci tocchiamo. / Con che cosa? / Con dei battiti d’ali. / Con le lontananze stesse ci tocchiamo». Il bello dell’abbraccio è che non vuol essere una rete per catturare l’altro. L’abbraccio è umile. Intuisce che possiamo solo avvicinarci, senza tentare di impossessarci dell’altro e nemmeno di accedere alla sua pienezza. L’abbraccio è accettare di toccare senza toccare. Per questo l’abbraccio è il momento dell’incontro in cui il contatto si realizza, ma è anche il momento successivo, quando la separazione viene assunta come forma profonda di comunione. Un maestro discreto della nostra contemporaneità, il pensatore Jean-Louis Chrétien, entra nel tema con queste parole: «L’abbraccio che non si richiude sull’altro, ma si apre a lui secondo un’infinità che l’altro può scoprire, questo abbraccio è un incontro. E, lungi dal concretizzare inadeguatamente ciò che l’incontro aveva promesso, mantiene la sua promessa in questo modo: promettendo sempre di più, in una sovrabbondanza che nessuna progressione è in grado calcolare e ancor meno di quantificare».
L’abbraccio è una delle espressioni umane più vere di reciprocità. La mutua e ospitale apertura a quell’epifania di futuro che è costituita da un volto. Gli amici lo sanno bene. Qualcuno dice che il nostro corpo ha la forma di un abbraccio. È forse per questo che l’atto di abbracciare è così semplice, anche quando dobbiamo percorrere un lungo cammino. L’abbraccio ha una forza espressiva incredibile. Comunica la disponibilità a entrare in relazione con gli altri, superando il dualismo, facendo cadere armature e resistenze, manifestando un cedimento, anche solo per qualche istante, nella difesa dello spazio individuale. Esiste una tipologia vastissima di abbracci, e ognuna di esse insegna qualcosa di quello che un abbraccio può essere: accoglienza e commiato, congratulazioni e lutto, riconciliazione e gesto di cullare, affetto tra amici o passione amorosa. Vi ci riconosciamo tutti: in abbrac-ci quotidiani e straordinari, abbracci drammatici o trasparenti, abbracci inondati di lacrime o di puro giubilo, abbracci di persone vicine o distanti, abbracci fraterni o innamorati; in abbracci ripetuti oppure – anche questo è possibile – in quell’unico e idealizzato abbraccio che mai è arrivato a realizzarsi ma al quale interiormente ritorniamo innumerevoli volte. In principio fu l’abbraccio, se pensiamo al grembo che nella prima infanzia ci nutrì. Questa è stata per noi la prima e riconfortante forma di comunicazione. Ma il bisogno di un abbraccio accompagna la nostra esistenza fino alla fine.
L’abbraccio è una lunga conversazione che si fa senza parole. Tutto quello che deve essere detto viene sillabato nel silenzio, e accade allora una cosa che è talmente preziosa e, in fin dei conti, talmente rara: senza difese, un cuore si pone in ascolto di un altro cuore. «Nel tuo abbraccio io abbraccio ciò che esiste, / la sabbia, il tempo, l’albero della pioggia, / e tutto vive perché io viva», assicurano i versi di Neruda. Nel loro abbraccio aperto gli amici condividono una preghiera. Che può forse essere trascritta con parole come queste: «Grazie, Signore, per gli amici che ci hai dato. Gli amici che ci fanno sentire amati senza un perché. Che hanno il loro modo speciale di farci sorridere. Che sanno tutto di noi chiedendoci così poco. Che conoscono il segreto delle piccole cose che ci rendono felici. Grazie, Signore, per quelle e quelli senza cui il cammino della vita non sarebbe lo stesso. Che ci sostengono anche quando il mondo sembra un posto insicuro. Che con la loro presenza ci infondono coraggio. Che ci sorprendo-no di proposito, perché trovano che troppa routine non sia una cosa buona. Che ci fanno vedere un altro lato delle cose, un lato fantastico, diciamolo pure. Grazie per gli amici incondizionati. Che non sono d’accordo con noi e rimangono con coi. Che aspettano per tutto il tempo che serve. Che perdonano prima delle scuse.
Queste e questi sono i fratelli e le sorelle che scegliamo. Coloro che metti al nostro fianco per restituirci l’aerea luce della gioia. Coloro che fanno scendere fino a noi l’imprevedibile del tuo cuore, Signore». «Il mio amico non è altro che la metà di me stesso», scrisse il gesuita e studioso Matteo Ricci (1552-1610), che sull’amicizia elaborò una straordinaria antologia di detti. Quella che può suonare come una definizione astratta acquista la sua trasparenza tangibile in un abbraccio. Quando gli abbracci si allacciano, incorporiamo e siamo incorporati nel cuore l’uno dell’altro, come se nel cuore dell’amico noi avessimo un nido o una patria. In questo abbandono consenziente si esprimono certezze che ci sono estremamente care: reciprocità, gioia, tenerezza, presenza, l’incontrarsi e il ritrovarsi, la comunione. L’istante dell’abbraccio le dichiara tutte d’un sol getto, ed è come se le sigillasse nella nostra anima. Per questo l’abbraccio non è solo un legame, una pausa in cui il respiro riposa: è anche un trampolino che ci proietta là dove, senza la fiducia e l’ispirazione di quanti ci amano, non sapremmo arrivare.
Con la sua vita e la sua morte, Gesù di Nazaret è sceso ad abbracciare tutti i nostri silenzi, anche quelli abissali, anche quelli remoti, per ridire la vita come possibilità di salvezza. Ha abbracciato il silenzio delle nostre impasse, di ciò che in noi o di noi viene taciuto; il silenzio in cui le nostre forze collassano e ci lasciano alla mercé della paura e dell’ombra che ci assediano; quell’impreciso e intimo silenzio che troppe volte ci appare irrisolvibile, il silenzio di quell’inquieta indefinizione che siamo noi, tra il già e il non ancora. Ha abbracciato questo tempo impastato di sconfitte e speranze, questo tempo che fa male come una spina che rimane dopo che la rosa è stata colta, questo tempo marcato da tempeste che ci abbaiano furibonde e da naufragi che attaccano, pronti a farci a pezzi. Ha abbracciato il silenzio della vita nuda, vulnerabile, indifesa o ferita, la vita che nessuna città accoglie, la vita bloccata dal filo spinato delle frontiere, impietosamente marchiata per essere avviata allo scarto. Ha abbracciato il silenzio di tutte le vittime della storia, il terrificante silenzio dell’ingiustizia, la lama cieca della violenza, il grido senza voce degli esclusi, il silenzio imposto ai poveri, l’ultimo sguardo, immenso e silente, che i giusti gettano sulla terra. In verità, non c’è niente e nessuno che Gesù non abbia abbracciato o sia disposto ad abbracciare. L’amicizia di Gesù ci ricorda che Dio mette una virgola dove noi credevamo possibile solo un punto finale.
(© 2023 Mondadori Libri S.p.A. per il marchio Piemme. Per gentile concessione di Mondadori Libri S.p.A.)
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Di José Tolentino de Mendonça di Avvenire di lunedì 17 luglio 2023
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