Claudia Manenti è architetto, laureata a Firenze. Ha conseguito il dottorato di ricerca presso il Dipartimento di Architettura e Pianificazione Territoriale dell’Università di Bologna. È stata docente a contratto presso le Facoltà di Architettura di Ferrara e di Cesena. Dal 2008 è direttore del Dies Domini Centro Studi per l’architettura sacra e la città della Fondazione Lercaro di Bologna e organizza ricerche e seminari sui temi dell’architettura liturgica. È membro della Commissione di arte sacra della Diocesi di Bologna e di Ravenna. Dal 2008 è docente di Introduzione all’Architettura Liturgica presso il Pontificio Seminario Regionale di Bologna. Ha pubblicato diversi articoli e saggi sui temi dell’architettura liturgica e degli spazi del sacro nella città contemporanea. Ha lavorato a diversi progetti architettonici e sistemazioni liturgiche.
Quali riflessioni Le ha suscitato l’Omelia di Paolo VI, in cui affronta il rapporto tra la Chiesa, l’arte e gli artisti?
L’attualità delle parole di Paolo VI è evidente. Ma lascia un gusto amaro considerato che questa omelia è stata pronunciata quasi sessanta anni fa e che da quel momento la relazione tra artisti e comunità ecclesiale invece che incrementarsi è andata sempre più perdendosi. Un po’ diversa è, invece, la situazione riferita al campo dell’architettura; per i progettisti, infatti, dalla fine degli anni Novanta sono state proposte dalla CEI, da università italiane e straniere e da centri di ricerca come il Centro studi per l’architettura sacra che dirigo, molte iniziative volte a ritrovare un linguaggio comune tra architetti e committenza ecclesiale.
Il dialogo avviato da Paolo VI nel 1964, in riferimento alle sue conoscenze, ha prodotto dei cambiamenti o tutto si è fermato?
Paolo VI aveva avviato un proficuo dialogo con artisti e architetti già come vescovo di Milano e il suo discorso del 1964 nasce in un clima di grande interesse delle comunità ecclesiali europee nei confronti dell’arte e dell’architettura. Infatti, dalla metà degli anni Cinquanta in tutta Europa si erano levate molte voci di rilievo culturale che auspicavano la ripresa del dialogo tra artisti e Chiesa. In Italia importante in questo senso fu il I Congresso per l’architettura sacra tenuto a Bologna nel settembre del 1955 dove il Cardinale Lercaro, rigettando qualsiasi ricorso a forme stilistiche del passato definite da lui ‘insincere’, conia il motto di quello che può definirsi il risveglio di una coscienza artistica del cattolicesimo: “Ogni momento della storia narra nel linguaggio dei vivi la lode del Dio vivente”. Purtroppo dopo la legittimazione avvenuta con il Concilio Vaticano II della fase di sperimentazione liturgica e artistica dei primi sessant’anni del Novecento ha preso il sopravvento un appiattimento della ricerca che nel giro di pochi anni ha portato allo spegnimento di tutte le iniziative culturali che avevano animato la fase precedente. E’ subentrata così una stagnazione culturale che non ha permesso il prosieguo di una effettiva elaborazione concettuale e di un dialogo con gli artisti, facendo mancare alla realizzazione delle tante chiese edificate dalla metà degli anni Sessanta (circa 5000 solo in Italia) una base conoscitiva e di ricerca effettiva. Nella maggior parte dei casi sono state, quindi, proposte forme architettoniche banali e prive di quella spiritualità che era stata tanto cercata nelle fasi di tensione culturale precedenti.
Un anno dopo l’8 dicembre 1965, furono i Padri del Concilio Vaticano II a lanciare questo messaggio agli artisti: “Il mondo nel quale viviamo ha bisogno di bellezza per non sprofondare nella disperazione. La bellezza, come la verità, è ciò che infonde gioia al cuore degli uomini, è quel frutto prezioso che resiste al logorio del tempo, che unisce le generazioni e le fa comunicare nell’ammirazione”. Considerata l’attualità del messaggio cosa si può fare secondo Lei affinché ciò si realizzi?
La prima cosa da fare come Chiesa è riconoscere di avere necessità dell’arte. La seconda è formare i sacerdoti alla storia dell’arte e dell’architettura e suscitare in loro un effettivo amore e senso critico per le forme di espressione artistica contemporanee. Attualmente solo pochissimi sacerdoti hanno anche solo i rudimenti di base della storia dell’arte. E lo dico avendo avuto l’incarico dal 2008 di tenere un piccolo corso presso il Seminario Regionale dell’Emilia Romagna di Introduzione all’architettura liturgica.
Prendendo ad esempio le tante chiese contemporanee presenti nelle nostre città, con esterni e interni molto omologati ed anonimi, perché, secondo Lei, nella storia moderna e contemporanea delle città, in generale, non si è più posta l’attenzione sulla forma architettonica e sugli interni delle chiese, per mancanza di fondi o per altre problematicità?
Il discorso è molto ampio e non lo si può risolvere in poche righe. Diciamo che dagli anni Settanta si è pensato che ogni spazio, purché capiente, potesse essere idoneo all’assemblea eucaristica in quanto tutti battezzati sono ‘pietre vive’. Che si possa celebrare in qualsiasi luogo perché tutto il mondo è stato santificato dalla venuta di Gesù Cristo è una realtà bellissima, ma non riconoscere l’importanza per l’essere umano in quanto tale di riconoscersi in uno spazio e di imprimente in esso la sua fede è un atto di profonda miopia antropologica prima che cristiana. Nella ricerca di forme architettoniche capaci di parlare al contemporaneo si sono impiegate molte risorse, ma fermandosi, appunto, agli anni Sessanta, quando, invece, in quel momento, la ricerca era appena iniziata. Oggi in campo architettonico si assiste, anche grazie ai progetti pilota voluti dalla CEI a partire dalla fine degli anni Novanta, a una ricerca della forma simbolica e del segno che trasmetta un contenuto di fede pur nel linguaggio dell’oggi. Ma le 5000 chiese sono già state costruite e sono una realtà difficilmente modificabile. C’è poi, sicuramente, anche un discorso di necessità culturale prima che economica di edifici liturgici non dispendiosi e non magniloquenti; la volontà è quella di non allontanarsi troppo dalla sensibilità del quotidiano delle persone, anche in affinità con una spiritualità, che io chiamo ‘del nascondimento’, che vede il valore di una presenza della chiesa come lievito nella pasta del mondo. Ma anche questo aspetto avrebbe bisogno di essere approfondito.
Lei ha partecipato al convegno nel maggio 2022 “Quale Arte Sacra Oggi? Uno dei temi affrontati è stato quello della preparazione dei parroci quando sono chiamati a prestare la loro opera in chiese antiche e moderne. Onde evitare interventi che potrebbero provocare danni irreparabili su opere di grande valore o realizzare opere architettoniche e artistiche scadenti, non sarebbe utile che i parroci seguissero un corso di preparazione sull’arte, la progettazione partecipata, le modalità di intervento e gli aspetti teologici?
Come dicevo, questo è un elemento di fondamentale importanza. Se verso l’architettura c’è una qualche forma di interesse da parte dei parroci, se non altro perché devono celebrare e vivere dentro quegli edifici, nei confronti dell’arte siamo a livelli di lontananza siderale, oltre che di diffidenza. Gli esiti dei “Percorsi di riavvicinamento: artisti contemporanei a confronto con il mistero cristiano” , che abbiamo promosso grazie al sostegno di Devotio e che ho presentato al convegno di Napoli, dimostrano come sia possibile e auspicabile un lavoro con gli artisti. Ci sono grandi talenti in persone culturalmente lontane dalla Chiesa, ma a cui può interessare la spiritualità cristiana quando questa viene loro presentata nella sua essenza più vera. E da questa relazione possono nascere veri capolavori. Gli artisti sono i sismografi della società e la Chiesa ha bisogno di loro per esprimere nella materia l’immateriale presenza di Dio nella quotidianità eucaristica. Ma i giovani artisti non conoscono più i fondamenti della fede e i sacerdoti non sono interessati a stabilire un dialogo con questi ‘figli’ così problematici, perché sensibili e attratti dall’essenziale. Allora si riempiono le chiese di immagini stereotipate, banali e industriali che propongono un approccio superficiale alla fede. Perché le immagini che si espongono sono lo specchio della fede che si propone.
L’arte cristiana ha un valore teologale, e comunica un messaggio religioso. L’arte, nelle sue varie espressioni, ha una capacità intrinseca di cogliere l’uno o l’altro aspetto del messaggio cristiano e non solo, traducendolo in colori, forme, suoni che assecondano l’intuizione di chi guarda e ascolta. L’arte e i beni culturali in genere, in base alla Sua esperienza, assumono un significato fondamentale per la crescita culturale di un Paese?
In un mondo che ha fatto del profitto e dell’utile il suo fine ultimo, abbiamo un disperato bisogno di essere chiamati all”utilità dell’inutile’ come citato da un bel testo di Nuccio Ordine. Abbiamo bisogno del gesto di amore gratuito e di quelle trecento libbre di olio con cui la Maddalena unse i piedi di Gesù. Pena la disperazione della finitudine umana.
In base alla sua esperienza, i cattolici come si pongono rispetto al rapporto tra la Chiesa, l’Architettura e l’Arte, sono sensibili o disinteressati?
C’è un interesse, ma spesso non accompagnato da una vera ricerca culturale. Si fa riferimento all’arte per spiegare i passi biblici, ma non si comprende che l’arte è manifestazione dell’invisibile. È un gesto d’amore. E come ogni gesto d’amore è gratuito e merita di essere donato. E non è che spendendo soldi per le nostre chiese e le nostre liturgie le togliamo ai poveri. C’è l’esigenza di aiutare i poveri, ma nella consapevolezza che i più poveri sono quelli che non conoscono Dio e a cui vanno aperte le porte per accedere alla comunione e alla lode. Il santo curato d’Ars che viveva nella povertà più assoluta, tutto quello che aveva lo spendeva per i paramenti liturgici perché per lui il primo dovere era la degna lode a Dio. È l’inutilità del fiore del bambino alla sua mamma, è la bellezza del bacio dell’Amata al suo Amore.
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