Il Consiglio dei Ministri, nella seduta del 2 febbraio, ha approvato il Disegno di legge sull’Autonomia differenziata, un provvedimento temutissimo dalle regioni meridionali per la drastica riduzione delle risorse pubbliche che comporterà, privandole dei soldi necessari a far funzionare la complessa macchina della pubblica amministrazione, principalmente nel delicato settore della sanità. Il DdL è anche contestato apertamente da autorevoli studiosi di diritto costituzionale che vedrebbero compromessa, nella sua sostanza, la stessa unità nazionale.
Non vogliamo soffermarci sulle polemiche che hanno accompagnato il dibattito politico attorno a questo tema, anche se non possiamo non far notare una certa sorpresa riguardo al governo Meloni che se aveva impostato l’ultima campagna elettorale sulla retorica patriottica, di fatto ha abbandonato tutto, “armi e bagagli”, perfino di fronte all’inconsistenza politica e al complesso antiromano della Lega.
Il presidente Meloni dice oggi che ha voluto rispettare la suprema volontà dell’elettorato. In realtà, la forza politica della Lega che fa dell’autonomia differenziata il suo cavallo di battaglia non deriva più tanto dal reale peso del consenso popolare, oggi fortemente ridimensionato, quanto dai vantaggiosi accordi politici stipulati, all’interno della coalizione nell’ultima campagna elettorale, nella suddivisione dei collegi elettorali sicuri. C’è da capire come possa sostenere sinceramente un processo del genere proprio il presidente Meloni che fino a poco fa si batteva addirittura per l’abolizione delle regioni.
Altra scorrettezza commessa durante l’ultima campagna elettorale – ma in questo non è stata da meno la coalizione di centrosinistra – è stata quella di designare nei collegi del Sud Italia candidati non espressione del territorio compreso nel collegio elettorale; i cosiddetti “paracadutati”. Basterebbe questo a delegittimare qualsiasi provvedimento preso ai danni del Mezzogiorno, depotenziato nella sua rappresentanza parlamentare.
È molto diffuso il pregiudizio, espresso frequentemente soprattutto sui social, secondo il quale il gap Nord-Sud sarebbe l’esito della cattiva amministrazione dei territori meridionali. C’è chi, per sostenere la necessità dell’autonomia differenziata, fa l’esempio della Sicilia dove la pubblica amministrazione “costa” il doppio delle regioni del Nord. Dimenticando che, tra tutte le regioni italiane, proprio la Sicilia è la regione con il più alto grado di autonomia. Come si vede, l’autonomia potrebbe non essere la soluzione della presunta cattiva amministrazione dei territori meridionali, ma la causa.
A questo proposito, è inutile dire che nemmeno in questo caso si può generalizzare. Ci sono città e regioni meridionali con ottimi amministratori. Se una città come Matera, per esempio, è stata designata Capitale europea della cultura, qualche merito gli amministratori della città dei Sassi l’avranno avuto. Oggi il presidente dell’Anci nazionale è il sindaco di Bari, eletto una seconda volta nel 2019 per acclamazione. Qualcosa vorrà significare tutto ciò, qualcosa che dovrebbe essere tenuto presente per mettere da parte pretestuosi luoghi comuni.
Non si sa se il disegno di legge sull’autonomia differenziata andrà veramente in porto o se non si tratta – come qualcuno sospetta – di un “trappolone” teso alla Lega, di un’esca lanciata nel bel mezo della campagna elettorale per le regionali in Lombardia per far abboccare l’elettore leghista all’amo della Meloni. Questo non è dato di sapere e nemmeno interessa saperlo.
Ma a parte ciò, il vero problema dell’autonomia differenziata, sarà quello delle “forche caudine” dei Lep, i Livelli essenziali delle prestazioni attraverso i quali dovrà necessariamente passare. Non è possibile qui addentrarsi in particolari tecnici particolarmente complessi; basterà dire che per ottimizzare i Livelli essenziali delle prestazioni, adeguandoli a quelli del Nord, occorrerà un impegno di spesa che viene in genere quantificato in circa cinquanta miliardi di euro. In parole povere, per incrementare i Lep del Mezzogiorno, sarà necessario dirottare sul Mezzogiorno l’intero ammontare delle prossime finanziarie o “diluire” questa transizione nel corso di venti o trent’anni; è improbabile che le stesse regioni del Nord, possano accettare condizioni di questa portata.
E bisogna aggiungere che anche la stessa realtà dei Livelli essenziali viene contestata da costituzionalisti ed economisti. Perché – si osserva – per una ragione di equità, i livelli delle prestazioni distribuite sul territorio nazionale non possono essere soltanto “essenziali”, ma devono essere necessariamente “uniformi”. Il punto dolente è quello delle prestazioni sanitarie; perché, come si sa, i bilanci delle regioni per i tre quarti interessano le risorse destinate alla sanità. E con la salute dei cittadini, ovviamente, non si può scherzare. Questo, almeno, si spera.
La salute delle persone non può essere subordinata agli appetiti elettorali di qualche forza politica. Perché la supponenza di questo complesso antiromano che emerge ripetutamente in qualche partito politico comporterà, in sostanza, che il Sud, privo di risorse importanti, si troverà nelle condizioni di chiudere ospedali, scuole, corsi universitari. E tanto altro.
Scrivi un commento